D'Annunzio,
Nietzsche e
Wagner: il "caso"
Parsifal.
Il rapporto
di Gabriele
D'Annunzio con Friedrich
Nietzsche
(Röcken,
1844 - Weimar,
1900)
non è
così
semplice come
può
apparire
ad uno
sguardo superficiale: il
filosofo influenza
certamente il
poeta,
il quale è
però
già
nietzscheano
senza sapere
d’esserlo,
prima
della conoscenza
diretta del
pensiero del
filosofo tedesco.
Nietzsche, partito
dalla concezione
di Arthur Schopenhauer
(Danzica, 1788
- Francoforte
sul Meno, 1860)
della vita come
dolore e lotta,
ne rovescia
la soluzione,
e contro la
rinuncia difende
invece l’accettazione
totale ed entusiastica
della vita come
essa è:
atteggiamento,
come ben
si vede, perfettamente
consono all'indole
di D'Annunzio,
che dunque in
Nietzsche si
riconosce e
si rispecchia,
vedendovi la
conferma teorica
di quello che
è già il proprio
orientamento
esistenziale.
Prima del
contatto
con il pensiero
di Nietzsche,
come s'è
detto, è però
la musica di
Wagner che influisce
su D’Annunzio,
specialmente
da quando si
fanno prepotentemente
strada in lui
aneliti nazionalistici.
D'Annunzio
fa propri gli
ideali del musicista,
ritenendo che
Wagner sia in
grado di conseguire
con le sue opere
la rigenerazione
spirituale alla
quale egli aspira,
fondendo insieme
mito, simbolo
e bellezza.
Questo fa sì
che ad un certo
punto, quando
si determina
la
drammatica frattura tra
Nietzsche e
Wagner,
causata proprio
dal Parsifal,
egli si trovi
a dover prendere
posizione, scegliendo se
stare dalla
parte del pensatore
o da quella
del musicista:
una scelta sofferta, dal
momento che
grande è
la sua stima
nei confronti
di entrambi.
E tuttavia egli
non si sottrae
all'ingrato
compito.
Edvard
Munch, Ritratto di Nietzsche, 1906
Nei tre articoli
del 1893, apparsi
su “La Tribuna”
il 23 luglio,
il 3 e il 9
agosto e dedicati
a Il caso Wagner,
è documentata
la prima - e
forse più
spontanea -
risposta di
D’Annunzio a
Nietzsche.
Nel
primo di questi
articoli il
poeta presenta
ai suoi lettori
il filosofo
(praticamente
sconosciuto
al pubblico
italiano), manifestando
nei suoi confronti
stima ed ammirazione
e definendolo
come «uno
dei più
originali spiriti
che sieno comparsi
in questa fine
di secolo, ed
uno dei più
audaci.».
D’Annunzio
ritrova in Nietzsche
la propria
convinzione
della necessità
di una nuova
aristocrazia,
«lentamente
e implacabilmente
formata per
selezione».
Recupera quindi
temi già
svolti ne La
bestia elettiva
del 25-26 settembre 1892,
ed infatti prosegue
descrivendo
quello che per
Nietzsche è
il vero nobile,
il superuomo:
«Ma il
vero nobile
secondo Nietzsche,
non somiglia
in nulla agli
slombati eredi
delle antiche
famiglie patrizie.
L’essenza del
‘nobile’ è
la sovranità
interiore. Egli
è l’uomo
libero, più
forte delle
cose, convinto
che la personalità
supera in valore
tutti gli attributi
accessorii.
Egli è
una forza che
governa, una
libertà
che si afferma
e si regola
sul tipo della
dignità.».
Questa definizione
del nobile riprende
alcuni aspetti
della figura
nietzscheana
del Frei-Geist
(Spirito libero),
che rappresenta
l’uomo impavido,
amante della
conoscenza,
pronto a rinunciare
a tutto per
essa. Ma in
D’Annunzio manca
proprio questa
dimensione conoscitiva:
il suo Frei-Geist
è espresso
in termini prettamente
volontaristici
come una forza
esuberante,
è la
traduzione politica
di quello nietzscheano.
Va
comunque
tenuta sempre
presente la
sua posizione
critica nei
confronti di
Nietzsche: D’Annunzio
infatti - come
già detto
in precedenza
- si appropria
solamente di
determinati
aspetti del
pensiero nietzscheano,
che gli permettono
di esaltare
la forza creatrice,
il ruolo dell’artista,
essere superiore
alla media degli
altri uomini.
È forse
più giusto
dire che questi
articoli di
d’Annunzio sono
in un certo
senso il manifesto
del suo superomismo,
la presentazione
ufficiosa del
superuomo dannunziano.
L'accettazione
dell’ideologia
nietzscheana
è chiaramente
presente
negli articoli,
pubblicati sempre
su “La Tribuna”
il 3, 10 e 15
luglio 1893,
su La morale
di Zola, nei
quali il poeta
respinge la
pietà,
la speranza,
la fraternità
che caratterizzano
invece il Docteur
Pasteur zoliano.
In questi articoli
D’Annunzio pone
il problema
dell’inquietudine
e dell’ansia
che travaglia
i giovani di
quegli anni.
Secondo il poeta
è necessaria
una nuova arte:
"Perché
un’arte nuova
fiorisse, perché
una nuova credenza
cangiasse il
cammino dell’umanità,
sarebbe necessario
un nuovo terreno
che a questa
credenza permettesse
di germogliare
e di elevarsi".
Zola e il naturalismo
hanno fallito
e con essi le
altre dottrine
che cercano
di superarlo
- come il pessimismo
schopenhaueriano
e dei romanzieri
francesi, l’evangelismo
degli scrittori
russi - perché
non in grado
«di conoscere
il gran flutto
d’idee, di sensazioni
e di sentimenti
nuovi che si
agita alla soglia
del nuovo mondo.».
Secondo d’Annunzio,
tanto il pessimismo
sistematico
degli scrittori
di Francia quanto
la recente predicazione
tolstoiana,
tendono ambedue
a un effetto
distruttivo.
L’uno dimostra
l’inutilità
di tutti gli
sforzi e la
spaventosa vacuità
della vita;
l’altro rinnega
ogni civiltà
e ogni progresso
a beneficio
delle idee di
rinunzia. Ambedue
procedono dunque
da
una medesima
impotenza speculativa
dinnanzi al
mistero, mentre
all'eroe decadente
spetta proprio
il compito di
affrontare di
petto il
mistero, senza
indulgere al
pessimismo,
alla rassegnazione
ed all'inutile
pietà,
in una piena
accettazione
della contraddizione
irrisolta insita
nell'esistenza,
in un "dire
sì"
alla vita di
sapore quanto
mai nietzscheano.
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